Il sigillo di Aymardo, vescovo di Lucera durante gli anni della depopulatio - Lucera: memoria e cultura
Antropologia & Arte,  Storia & Archeologia

Il sigillo di Aymardo, vescovo di Lucera durante gli anni della depopulatio

Aymardo fu arciprete della chiesa di Lucera e poi nominato vescovo prima dell’ottobre 1294 e terminò il suo mandato a Lucera il 9 giugno 1302, due anni dopo la dispersione della colonia saracena e la successiva intitolazione della città in onore di Santa Maria.

Di particolare interesse per lo studio della cultura materiale del periodo risultano essere i sigilli del presule lucerino custoditi in vari archivi tedeschi e reperibili grazie all’ausilio delle nuove tecnologie e all'”apertura” degli istituti di conservazione che mettono a disposizione le fotografie di centinaia di migliaia di documenti.

Nello specifico il sito monasterium.net raccoglie oltre 500.000 documenti di oltre 60 istituzioni provenienti da più di 10 paesi europei. Abbiamo reperito ben 6 sigilli nonostante per altre fotografie consultate c’è la possibilità che ve ne siano altri dove purtroppo manca la descrizione a corredo del documento. La qualità delle immagini a volte non è altissima ma permette comunque di avere un riscontro dell’iconografia scelta dal vescovo.

Aymardo appare nei documenti tra vescovi e arcivescovi che concedono indulgenze a chiese e monasteri della Germania dall’Italia. I sigilli, in ovale acuto di cera rossa, mostrano nella parte superiore la Vergine coronata, a mezzo busto, col bambino in braccio; in basso compare il vescovo benedicente, con mitria e pastorale, con quattro stelle, due per lato. La legenda che corre lungo i bordi dei sigilli, di difficile lettura, potrebbe essere sciolta così:

S(igillum) AYMARDI EPI(scopus) LVCERINENSIS (o LVCERIENSIS).

Per i dettagli della vita del vescovo Aymardo riportiamo un estratto dall’interessantissimo articolo del dott. Antonio Antonetti dal titolo “I vescovi di Lucera del XIII secolo: note per una cronotassi scientifica” che potete comodamente consultare e scaricare qui.

Alessandro De Troia
Walter V. M. di Pierro

[…] un documento testimonia che il 25 ottobre titolare della diocesi lucerina era Aymardo. Purtroppo sulle modalità di selezione di Aymardo i documenti tacciono, per cui non possiamo stabilire con precisione se sia stato eletto dal capitolo oppure sia stato scelto dal papa; in ogni caso il successore di (papa n.d.r.) Celestino, Bonifacio, sospese il presule dalle sue funzioni per verificare con suoi giudici la canonicità del suo ingresso in diocesi.

Non sappiamo per quale motivo fu sospeso (nel documento pontificio si parla genericamente di «ex certis causis non tamen persone tue vitio»); se nel documento si esclude la causa della persona, l’unico ragionevole motivo della sospensione resta l’intromissione palese del sovrano nella scelta (e non sarebbe una novità che Celestino V avesse ceduto a una diretta richiesta di Carlo II e del suo neocreato cardinale Giovanni di Castrocielo, arcivescovo di Benevento). In ogni caso, Bonifacio sanò la sospensione con un privilegio del 12 dicembre 1295. Questo documento, però, è stato sempre interpretato in maniera scorretta, a partire da Ughelli, il quale pone il termine dell’episcopato di Guglielmo nell’anno 1295, cosa impossibile dal momento che papa Celestino rinunciò al pontificato il 13 dicembre del 1294 e il suo successore fu eletto a Napoli undici giorni dopo. Il problema è che tale fraintendimento si è perpetuato fino alla ricostruzione di Schiraldi, il quale cita la versione ridotta del privilegio fornita da Egidi per giustificare l’elezione (?) di Aymardo nel dicembre ‘95.

Quello di Aymardo è l’episcopato meglio documentato di tutto il secolo. Oltre ad avere limiti cronologici certissimi, sappiamo anche che fu presente in sede e possiamo ricostruire il complessivo atteggiamento che tenne durante quegli anni centrali per la storia di Lucera, quelli che videro la città trasformarsi da Luceria Sarracenorum  a Civitas Sancte Marie. Era arciprete della chiesa lucerina e la curia pontificia dice di lui che «ecclesia ipsa per tue circumspectionis fructuosum studium cum tibi litterarum scientia onesta morum et vite aliaque virtutum merita suffragentur ac alias sic in spiritualibus et temporalibus circumspectus». Il primo documento del suo ministero che ci è giunto lo vede accanto al metropolita beneventano mentre formalmente rinunciava a ogni rivendicazione sulle chiese di Apricena, immediatamente soggette al monastero di S. Giovanni in Piano, le quali facevano parte della diocesi di Lucera ma sulle quali Celestino V impose l’autorità del monastero, passato all’Ordine celestiniano da un mese. Il documento successivo sull’episcopato di Aymardo è quello del reintegro al ministero, datato dicembre 1295; non sappiamo purtroppo cosa sia stato di lui durante la sospensione.

La sua persona, in ogni caso, dovette godere del sostegno del sovrano dal momento che tre mesi dopo la fine della sospensione, Carlo II concesse alla cattedrale «ut de cetero ep(iscop)i d(i)c(t)e eccl(esie), qui pro tempore fuerint ipsaque eccl(esia) dum vacabit, decimam omnium regalium iurium, redditum et proventuum dicte terre n(ostre) Luc(erie), sive sint vetera sive nova,singulis annis, iuxtaquod aliis eccl(esiis) d(i)c(t)i Regni N(ostri) persolvitur. recipiant et habeant successive». Nella narratio di questo documento troviamo uno dei passi più discussi, ossia «unde fit quod ipsius presul ecclesie, inter Arabes positus et nullius aut modice apud eos subvencionis presidia sentiens, quinimmo alias in ecclesiasticorum reddituum perceptione famescens, miserabilem vitam ducit».

Il quesito delle reali condizioni di vita del vescovo di Lucera è difficile da risolvere: anche se i saraceni non dovevano essere particolarmente entusiasti di pagare per le terre che coltivavano, non dobbiamo dimenticare che il vescovo di Lucera poteva contare su un buon numero di proprietà nella diocesi (vedremo più avanti nel dettaglio alcuni di questi beni); in secondo luogo, scorrendo i documenti dei versamenti della decima, sono molti i richiami del sovrano al capitano della città perché costringa i doganieri a pagare al vescovo quanto dovuto; in terzo luogo, in un documento del luglio 1301, veniamo a sapere che il vescovo possedeva una domus con annesso giardino (curtis) presso le mura della città (e razionalmente non possiamo ammettere che il vescovo avesse eretto una residenza dopo la distruzione della colonia musulmana,ragion per cui dobbiamo ipotizzare che essa fosse precedente all’agosto 1300). Se ammettiamo che il vescovo vivesse realmente in condizioni di indigenza, allora si porrebbe il problema di come abbia fatto il vescovo a erigere una residenza e a mantenere intatte domus e cattedrale fino al 1301; la mia ipotesi, dunque, è quella di una situazione finanziaria del presule problematica, sì, ma non di indigenza piena, perché questa non spiegherebbe una serie di situazioni. L’atto di Carlo II, probabilmente, voleva procurare al vescovo l’indipendenza finanziaria dal gettito fiscale del terragio, a sua volta poco stabile. Altro fattore importante da tener presente, fu il rapporto che il vescovo intrattenne con le autorità locali; se per Bartolomeo abbiamo parlato di coabitazione abbastanza pacifica, per Aymardo possiamo spingerci a parlare di vera e propria collaborazione con i signori musulmani.

Esemplare in questo senso è la vicenda di ‘Abd al-‘Aziz,conte di Tertiveri e vero e proprio signorotto della bassa diocesi lucerina; «the knight ‘Abd al-‘Aziz owned a vineyard in the vicinity of San Severo. In September 1289, he was described as staying in Foggia. […] In late July 1296, Charles granted the teniment of Tertiveri to‘Abd al-‘ Aziz. The land at Tertiveri was conceded to him under termsand circumstances similar to those used when fiefs were granted to Christian nobles[… he] was referred to as the “dominus” of Tertiveri»; la masseria gli venne concessa col divieto (regio) d’ingresso ai cristiani. Il miles trasformò il casale in una vera e propria defensae da qui cominciò ad allargare i confini della proprietà, prima verso la proprietà dei Templari di Alberona, poi affittando nel 1298 il casale di S. Giacomo dal monastero di Cava de’ Tirreni, infine occupando icasali di San Nicola, di Falconara e alcune terre del demanio regionelle vicinanze di Tertiveri (le quali erano state chiuse agli estranei,tranne che agli armenti dei cristiani). 

Nonostante i diversi espropri perpetrati da ‘Abd al-‘Aziz, non abbiamo notizia di liti di confine o di richieste di restituzione da parte del vescovo Aymardo; la cattedrale di Lucera possedeva alcune proprietà nei pressi delle terre del signorotto saraceno eppure il presule non lamentò mai alcuna aggressione. Egidi suppone che «forse i Lucerini non osavan dire tutto quel che pensavano in proposito, e davan la colpa delle prepotenze alla connivenza dei corrotti ufficiali, per non farlari salire al favore reale», e cioè i signorotti, cristiani o musulmani che fossero, spadroneggiavano impunemente per le campagne del Tavoliere orientale e per i monti Dauni. Quello che colpisce delle sue parole è l’uso del termine Lucerini intesi come popolazione presa nel suo insieme, senza alcuna distinzione religiosa; gli uomini di Lucera sono accomunati da un destino di fame, a cui i signori non volevano rispondere. 

Se col signore feudale di turno Aymardo dovette intrattenere rapporti piuttosto cordiali, non si può dire lo stesso dei tre capitani(Giovanni Balsano, Baldovino Tristayno e Giacomino de Campaniola) che si avvicendarono alla custodia della città; furono costoro ad essere accusati di non aver consegnato la decima per tre volte nel giro di tre anni. Con costoro il vescovo dovette mostrarsi particolarmente duro. Anche coi suoi chierici sorsero alcuni problemi, anche se purtroppo non possiamo dire di che genere, tali comunque da costringerlo a chiedere l’aiuto del braccio secolare per imporre la sua volontà.

Dopo di ciò entriamo nell’anno fatidico, quello del 1300. Il presule lucerino non sembra particolarmente coinvolto nelle questioni della dispersione della colonia, tanto che addirittura nella narratio del documento del gennaio 1302, in cui si ripercorrono gli atti di Giovanni Pipino, non c’è alcuna menzione del vescovo; anzi, veniamo a sapere che il 15 ottobre (ossia due mesi dopo l’assedio della città) il monastero di S. Spirito del Morrone faceva appello alla Sede Apostolica contro i tentativi del vescovo Aymardo di entrare nel monastero di S.Giovanni in Piano e imporvi il controllo episcopale. Al momento della denuncia, i rappresentanti del monastero celestiniano e alcuni monaci di S. Giovanni si erano presentati sotto le porte della residenza del vescovo «apud Civitatem Sancte Marie olim vocatam Luceriam».Segue un periodo di silenzio fino al 24 luglio 1301, quando troviamo il vescovo di Lucera presenziare all’atto di consegna dell’indulgenza straordinaria concessa da papa Bonifacio VIII in occasione della consacrazione della chiesa edificata da Giovanni Pipino in onore di San Bartolomeo, santo del giorno della vittoria definitiva sui saraceni. Questo atto venne sottoscritto nella residenza episcopale dal presule e da tre canonici, Giovanni di Casale S. Giovanni, Giovanni di Castelvecchio e il diacono Giacomo di Guasco.

A distanza di pochi mesi troviamo il vescovo presso la corte reale per richiedere la restituzione di alcune proprietà sottratte abusivamente dagli ufficiali regi; siamo negli anni in cui le tantissime terre occupate dai signorotti saraceni erano state divise tra i nuovi signori cristiani (il primo a goderne fu,ovviamente, Giovanni Pipino). Il problema che si manifestò in quest’operazione fu quello di ridisegnare i confini precedenti alla colonia saracena. Aymardo si presentò al re chiedendo indietro il «tenimentum S. Symeonis in via Troyana, tenim. casalis S. Laurentii et S. Herasmi ac tenim. S. Marie in Fraudana, iuxta viam qua itur ad Montem Corbinum, et tenim. quod est inter duo flumina, quod dr. Falconaria». Il presule non aveva documenti per testimoniare che quelle proprietà fossero di pertinenza della Chiesa lucerina; infatti, poteva dimostrare soltanto che prima e durante la depopulatio degli arabi era in possesso di quelle terre e che, dopo l’evento, gli ufficiali le avevano confiscate. Con molta probabilità, gli incaricati di ridefinire i confini delle terre inglobarono anche appezzamenti di terra che confinavano con le proprietà dei signori musulmani; se guardiamo con attenzione ai terreni contestati, tre confinavano direttamente con alcuni terreni assoggettati da ‘Abd al-‘Aziz (ossia i casali di San Lorenzo e Sant’Erasmo, contigui col casale di San Giacomo, e Falconara); la tenuta di Santa Maria in Fraudana si trovava probabilmente su versante di Rivomorto, quello che era stato donato nel 1279’-80 alla comunità per uso comune; l’identificazione di S. Simeone ad oggi è dubbia. In ogni caso, vediamo un vescovo deciso e pronto a difendere con veemenza le proprietà della chiesa lucerina. 

Il documento che segna il cambiamento significativo tra il prima, la città dei Saraceni, e il dopo, la città di Santa Maria, è il diploma del 18 gennaio 1302, col quale il sovrano regolamentava la vita del capitolo della cattedrale lucerina. A differenza dell’interpretazione fornita da Schiraldi, ritengo che questo documento non fu l’atto rifondativo del capitolo, quanto più semplicemente una regolamentazione del numero e delle funzioni dei canonici. Dal documento si evincono alcuni interventi sia per il vescovo che per il capitolo: per il primo si ferma a cento once d’oro la dotazione regia per l’episcopio; la stessa cifra dovrà essere consegnata anche al capitolo, il quale dovrà essere stabilmente composto da venti membri; sulla scelta dei membri il re accampava ampi diritti, senza alcun margine di azione per il vescovo o di cooptazione per gli altri canoni-ci. Il vescovo era tenuto a consacrare il canonico scelto; tutti i membri del capitolo erano tenuti al culto della Vergine e alla residenza. Inoltre si chiedeva che almeno quattro canonici si recassero presso lo studium napoletano per lo studio del diritto. Non c’è nessun accenno alla strutturazione interna del capitolo. Negli stessi giorni, Aymardo chiese al re la corresponsione della decima per l’anno precedente.

Gli ultimi documenti del ministero lucerino di Aymardo riguardano la presentazione di tre chierici scelti dal re per entrare nel capitolo cattedrale; i loro nomi sono Ugo de Sistarico, Bartolomeo di Angelo da Perugia e Goffredo da Nizza. Furono questi anche gli anni in cui si avviarono le grandi opere edilizie cristiane, le quali si svilupparono nei due grandi cantieri del Duomo e di San Francesco; non sappiamo per quale motivo, in ogni caso, i lavori per la nuova cattedrale proseguirono con particolare lentezza e nel 1303, anno di un documento di papa Benedetto XI, i lavori per la cattedrale risultavano ancora in alto mare. 

La conclusione del pontificato di Aymardo è datata 9 giugno 1302, quando Bonifacio VIII lo traslò alla sede di Salpi; contestualmente trasferiva alla sede lucerina il vescovo di Salpi, Stefano. Secondo Egidi, Carlo in questo modo si sarebbe sbarazzato di un uomo «petulante […] nel rivendicare terre possedute ab immemorabili» ma questo giudizio cozza coi dati che abbiamo raccolto sinora su di lui (elezione probabilmente voluta da Carlo, difesa dei diritti del vescovo, concessione della decima regia) e il suo comportamento in nulla si discosta da quello tenuto da tutti gli altri vescovi del regno a lui coevi.  

da A. Antonetti, I vescovi di Lucera del XIII secolo: note per una cronotassi scientifica, “Archivio storico pugliese” LXVIII (2015), pp. 51-79.

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